Old friends and new vibes.

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    Qualche mese prima la mia famiglia aveva preso l’assurda decisione di lasciare Londra, la città che era sempre stata la nostra casa, per trasferirsi in Canada, più precisamente a Vancouver. Il motivo di questo inaspettato trasferimento era molto semplice: mio padre aveva ricevuto un’importante offerta di lavoro, del genere che sarebbe proprio da folli rifiutare e noi, che un po’ folli in fondo lo eravamo (ma nemmeno poi tanto in fondo), avevamo tutti preso la decisione unanime di seguirlo, tutta la famiglia, nonostante noi figli fossimo ormai già praticamente adulti e perfettamente in grado di cavarcela anche da soli ma si sa “i Darling restano sempre uniti”, come amava ripetere mia madre come se fosse una specie di mantra, di motto di famiglia. Mio fratello Michael doveva frequentare l’ultimo anno di liceo e pertanto non avevamo avuto problemi nel trasferirlo dall’altra parte del mondo, stessa cosa per mia sorella Wendy che doveva frequentare il secondo anno di università, qualunque college sarebbe stato più che felice di vantare tra i suoi studenti una ragazza intelligente, brillante e con una media pressoché perfetta come quella perfettina di mia sorella. Per quanto riguardava me, anche io non avevo avuto grossi problemi, avevo deciso di frequentare la facoltà di medicina e avevo superato il test d'ingresso per l'università di Vancounver senza nessun tipo di intoppo, forse non si direbbe a guardarmi ma anche io ero un ragazzo piuttosto sveglio ed intelligente, il cervello non mi mancava e nemmeno le capacità per sostenere il carico di lavoro di una facoltà del genere. Qual Era allora il mio problema principale? Beh, che avevo anche la straordinaria capacità di distrarmi molto facilmente e che divertirmi forse mi piaceva un po’ troppo. Avevo perso il conto ormai di quante volte nel corso degli anni mio padre mi aveva rimproverato per la mia apparente totale mancanza di responsabilità, ma come si dice: città nuova vita nuova, avevo deciso che gli avrei dimostrato di essere perfettamente in grado sia di prendermi le mie responsabilità, sia di poter camminare sulle mie stesse gambe e cavarmela, da solo per così dire. Così oltre ad essermi iscritto al Trinity College, ancora prima dell’inizio del primo semestre avevo trovato un lavoro part-time in un noto bar della zona e a dirla tutta, sfornare cappuccini e brioches non era poi nemmeno tanto male come si poteva pensare.
    Quel pomeriggio ero di turno, ad essere del tutto sincero quello del pomeriggio era il mio turno preferito, subito dopo il pranzo la solita ressa di gente cominciava a diradarsi, il bar praticamente si svuotava e non c’era poi molto da fare a parte qualche caffè e pulire il bancone e i tavolini, era tutto abbastanza tranquillo fino all’orario dell’aperitivo quando i caffè venivano sostituiti dai cocktail e lì cominciava il divertimento vero! Comunque, come dicevo erano circa le tre del pomeriggio ed era tutto decisamente molto tranquillo «Ecco a lei signor. Scoffield il suo caffè macchiato freddo con latte di soia.» esclamai non appena sentì il campanello appeso sopra la porta del bar tintinnare segnalando l’ingresso di qualcuno. Presi il l’ordine che avevo appena preparato senza ancora alzare lo sguardo e appoggiai sopra il bancone il bicchiere di carta dell’asporto che avevo preparato in anticipo per il signor Scoffield, l’avvocato che lavorava dall’altra parte della strada e che tutti i giorni alla stessa ora, entrava per prendersi sempre il solito caffè pomeridiano.
    John Darling
     
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    Erano circa 6 o 7 anni da quando ero giunta a Vancouver da una terra molto, molto lontana che probabilmente molti di voi conosceranno pur non essendoci mai stati.
    “Seconda stella a destra questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino. Poi la strada la trovi da te, porta all'isola che non c'è”: questa è la strada per trovare il posto da cui arrivo, posto però assolutamente quasi impossibile da raggiungere, specialmente negli ultimi decenni.
    L’Isola Che Non C’è. Suppongo che non abbiate bisogno di una descrizione di essa; sono infatti abbastanza certa che quel nome vi evochi nella mente tutto ciò che c’è da sapere, così come il mio nome, sono TigerLily.
    Quello che invece non sapete è il perché io ora mi trovi in una città canadese così lontana dalla mia patria. Semplice: ho seguito Peter Pan, il mio migliore amico. Il ragazzino che non voleva crescere si era stancato della solita vita e aveva deciso di andarsene via dall’isola. Non fu l’unico però che aveva avuto quest’idea, a lui infatti si era aggregata Trilli (a dir la verità non ho mai capito se la fatina voleva davvero abbandonare l’isola o se l’aveva fatto solamente per seguire il ragazzo) e io, già che c’ero, mi ritrovai a seguirli. L’isola stava risultando troppo stretta ad ognuno di noi, credo.
    Devo essere sincera però, non fu affatto facile ambientarmi in un posto totalmente diverso dal mio, per mesi e mesi avevo pensato infatti di fare ritorno all’isola, ma quando feci la scoperta di ciò che ero in realtà, qualcosa in me cambiò. In più mi piaceva iniziare a vedere gli anni scorrermi anno dopo anno, e non trovandomi per sempre quella ragazzina di 12 o 13 anni…Era bello crescere.
    Io, Trilli e Peter ci iscrivemmo anche a scuola, ma detto sinceramente non era affatto un posto adatto ad una come me. Non l’avrei mai detto, ma alla fine fu proprio Peter Pan quello che si adattatò con più facilità, pur rimanendo l’ingenuo ragazzino di sempre. Io propio non riuscivo a stare dentro quelle quattro mura scolastiche costretta ad ascoltare ore e ore di quegli adulti che non facevano altro che parlare di cose che alla fine non mi interessavano minimamente. Ero troppo uno spirito libero indomabile e ritrovarmi ad essere costretta a fare qualcosa, non era proprio nelle mie corda. Invece lo era scrivere. Scoprì infatti che mi piaceva scrivere e a quanto pareva avevo proprio un dono della scrittura. Fu così che, chissà come, un po’ casualmente, divenni una scrittrice. Anche se avevo vissuto tutta la mia vita in una piccola isola, avevo tanto da raccontare. E a quanto pareva, ciò che narravo piaceva. Ai ragazzi per lo più, del resto puntavo proprio a quel target. Mi piaceva scrivere storie fantasy, perché io stessa facevo parte di quel mondo.
    Solitamente scrivevo immersa nella natura e in solitudine, altre volte però mi potevate trovare al Donuts Bakery Cafe e non per la splendida vista che aveva sull’oceano, ma perché adoravo le ciambelle che facevano. Costatai che non era affatto male scrivere con una buona tazza di tè, di caffè, (o di quello che era) ed una (o più) ciambelle. Si poteva dire che ormai ero di casa!
    Quel giorno mi trovavo appunto nel bar già da un paio di ore, e avevo già scritto un capitolo intero. Era il secondo di questo mio nuovo libro. Parlava un po’ di me, della mia nuova me, ma presa molto alla larga. Da quando ero giunta lontana dall’isola, avevo scoperto di essere in grado di trasformarmi in una tigre, comprendendo quindi perché mio padre mi aveva chiamata TigerLily. In seguito scoprii che c’erano altri come me e che venivamo chiamati Mutaforma. Nel mio libro la protagonista era appunto in grado di assumere sembianze feline, proprio come me, ed era alla ricerca di un tesoro sepolto nel bel mezzo della savana.
    Ehi Lily. Stai scrivendo un nuovo libro!? mi chiese Jack, uno dei baristi, domanda a cui annui sorridendo. L’ultimo libro era stato pubblicato cinque mesi fa e da un paio di settimane ero pronta ad immergermi in un’altra avventura.
    Ah, sulla terra avevo capito quanto strano fosse il mio nome, così decisi di chiamarmi Lily.
    Jack, posso avere un’altra ciambella!?. Dopo aver riletto entrambi i capitoli, ordinai nuovamente da mangiare. E un bicchiere di te alle erbe, per piacere. Ma quando alzai lo sguardo verso colui che doveva essere Jack, mi ritrovai a guardare un ragazzo biondino pressapoco mio coetaneo. Oh, scusami tanto…Jack deve aver finito il turno ed ora ci sei te…, esclamai grattandomi la nuca ed assumendo un’aria un po’ dispiaciuta; il ragazzo era sicuramente nuovo perché non l’avevo mai visto e non volevo aver fatto brutta figura già dalla prima volta.
    Poggiai anche la penna sul quaderno in cui scrivevo, cosa che solitamente non facevo mai. Perché se ero all’opera su un qualcosa, non mollavo mai la mia penna, perché così ero pronta a scrivere tutto quello che mi balenava in testa, senza perdere nulla e senza distrazioni. Ma quella volta, rendendomi conto di essere stata un po’ “maleducata”, riposi la penna e mi dedicai completamente al nuovo barista.
    Tiger Lily
     
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    Da bambino si poteva dire che fossi il più coscienzioso dei miei fratelli, sempre calmo, sempre tranquillo, cercavo sempre di seguire le regole e di fare la cosa giusta in ogni occasione. Inutile dire quanto mi piacesse andare a scuola ed imparare, studiare persino, tant’è che ricordo più di un’occasione in cui mia sorella Wendy mi ha affibiato il soprannome del “secchione”, se quella parola usciva dalla sua bocca non mi infastidiva davvero, fingevo solo di irritarmi tanto per darle la soddisfazione di avermi visto innervosito. I grandi occhiali tondi che avevo indossato fino alla fine delle scuole medie ed il fatto che mi piacesse particolarmente portare un vecchio cappello a cilindro, come quello indossato da mio padre, non aiutavano certo nella mia immagine. Con il tempo, crescendo ero cambiato, dopo le scuole medie avevo iniziato a frequentare il liceo, l’infanzia aveva lasciato il posto all’adolescenza, avevo smesso di portare quello stupido cappello a cilindro e avevo sostituito gli occhiali spessi con un paio di lenti a contatto. Non solo la mia immagine era cambiata, lo ero anche io, da bambino tranquillo e compiacente quale ero, mi ero trasformato nel perfetto stereotipo dell’adolescente scapestrato che faceva tardi la sera per uscire con gli amici facendosi beffe del coprifuoco dei genitori. Ne avevo combinati parecchi di disastri nel corso di quegli anni, di alcuni di questi mi pentivo e vergognavo persino, altri erano stati decisamente divertenti. Inutile dire quanto avessi dato del filo da torcere ai miei genitori e quanto mio padre avesse, forse incosciamente, cominciato a considerarmi un po’ come una causa persa, non credevo davvero che nemmeno lui se ne rendesse conto, eppure lo potevo percepire chiaramente dall’atteggiamento che aveva nei miei confronti. Era chiaro che non mi facesse piacere che mio padre, o qualunque altro membro della mia famiglia, potesse pensare certe cose di me, in quegli anni però non avevo proprio potuto fare a meno di comportarmi in quel modo. Anche qui però, mi era venuto in grande aiuto la crescita, mano a mano che gli anni passavano infatti avevo comincianto a capire che forse, qualcosa nel mio atteggiamento doveva cambiare, che dovevo pormi un’obbiettivo, qualcosa da perseguire nella vita, perché continuare a girovagare senza senso con il solito gruppo di scansa fatiche a lungo andare non avrebbe portato nulla di buono. A scuola i miei voti erano un po’ calati, ma non così tanto da diventare preoccupanti, per fortuna quella era una cosa di me che non era mai cambiata: ero sempre stato un ottimo studente. Dopo il diploma quando era arrivato il momento di decidere che cosa fare della mia vita avevo scelto di iscrivermi alla facoltà di medicina, ricordavo ancora la faccia sconvolta e lo sguardo disapprovazione di mio padre, doveva essere proprio sicuro del fatto che non sarei mai riuscito a portare a termine un compito così impegnativo. Beh, gli avrei dimostrato quanto si sbagliava, quanto potevo davvero farcela e soprattutto che sarei stato in grado di cavarmela da solo!
    Così eccomi qui, in questo bar a montare il latte per i cappuccini e riscaldare ciambelle prima di servirle. Quel giorno il bar era quasi vuoto, non avevo nemmeno notato quella ragazza dai lunghi capelli scuri che passava lì la maggior parte dei suoi pomeriggi a scrivere, a penna, su un quaderno, insomma questa cosa mi era saltata all’occhio, non sarebbe stato più comodo un computer? Il signor Scoffield aveva appena ritirato il suo caffè d’asporto e io stavo pulendo il bancone con una vecchia spugna che avrebbe avuto davvero bisogno di essere sostituita. Dopo l’uscita dell’avvocato nel locale eravamo rimasti io e la ragazza che scriveva sempre che ad un certo punto ordinò a Jack, il mio collega, una ciambella e un té alle erbe, peccato che Jack avesse finito il turno da una buona mezz’ora, alzando lo sguardo si accorse da sola che non si era rivolta alla persona che credeva «Mi dispiace non sono Jack, sono John, va’ bene uguale? Comincia sempre con la J…» le risposi rivolgendole un sorriso smagliante, la vedevo lì dentro da un po’ ma stava quasi sempre di spalle e con lo sguardo chino sul suo quaderno, ora che invece avevo la possibilità di guardare il suo viso, potevo dire che fosse davvero carina. «Preparo subito la tua ordinazione.» aggiunsi e dopo averle rivolto un altro sorriso, le voltai le spalle per andare a scaldare la ciambella e preparare il té, quando fu tutto pronto sistemai piattino e tazza su un vassoio, uscì da dietro il bancone e mi diressi al suo tavolino per appoggiare quello che aveva ordinato davanti a lei. «Ecco a te… Attenta al té è bollente, non vorrei che ti scottassi...» non era solo molto carina, nel suo viso c’era qualcosa che mi ricordava qualcuno… qualcuno che consocevo molto tempo prima… ma chi?
    John Darling
     
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2 replies since 30/8/2021, 09:43   70 views
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